La città di Milano e il Museo del Novecento dedicano una retrospettiva al poliedrico e visionario Bruno Munari (1907-1998). In questa occasione e partendo dalla sua serie di «Macchine Inutili», Luca Zaffarano traccia un ritratto a tutto tondo di questo artista eclettico che Arshake pubblica in cinque parti, con cadenza settimanale. Le Macchine Inutili diventano filo conduttore di un racconto che si ricollega alle molteplici sfaccettature dell’artista, illustrato da fotografie inedite scattate da Pierangelo Parimbelli.
La città di Milano ed il Museo del Novecento celebrano, con una mostra in programma da aprile a settembre 2014 a cura di Marco Sammicheli, la figura di Bruno Munari, un grande protagonista della scena artistica italiana ed internazionale. La retrospettiva prende avvio dall’ampio corpo di opere disponibili presso la Fondazione Jacqueline Vodoz – Bruno Danese di Milano. L’insieme dei lavori dell’artista milanese si confronta nel percorso espositivo con le opere di molti artisti, presenti nella collezione del Museo cittadino, che per metodologia e produzione sono vicini al suo modo sperimentale di intendere l’arte, da Franco Grignani a Paolo Scheggi, da Getulio Alviani a Giulio Paolini e molti altri ancora. Munari artista, formatosi e maturato nel solco delle sperimentazioni futuriste, è stato figura di spicco e punto di riferimento autorevole per molti protagonisti delle correnti più sperimentali (futurismo, astrattismo, arte concreta, cinetica, arte programmata, moltiplicata), mantenendo però sempre, nell’attraversamento di queste esperienze, una continuità di pensiero in evoluzione ed una lateralità rispetto ad ogni classificazione definitiva. Come sostiene il curatore: «Munari politecnico è il racconto di un artista poliedrico e del suo ruolo nell’arte italiana ed europea nel corso del Novecento e dei rapporti che lo hanno portato ad essere un protagonista eclettico. Munari utilizzava pittura, scultura, collage, installazioni luminose, opere su carta e sperimentazioni tecniche per spingere la propria ricerca artistica in territori di confine».
A noi interessa cogliere l’occasione di questa rivalutazione critica per approfondire il tema con il quale Munari ha esordito nel panorama futurista milanese degli anni trenta: le Macchine Inutili. Descriveremo nei dettagli queste opere, analizzando le tante caratteristiche progettuali (tutte simultaneamente presenti) che evidenziano un pensiero compositivo complesso e fuori dal comune. Illustreremo con delle immagini inedite la loro ricchezza poetica, dedicando alcune riflessioni alle proprietà formali che elenchiamo:
- dinamismo di una forma indefinita
- cinetismo
- spazialità
- programmazione
- casualità
- astrazione
- installazione
- instabilità percettiva
- creazione di forme naturali
Il dinamismo di una forma indefinita.
Bruno Munari nasce a Milano nel 1907 e dopo aver trascorso l’adolescenza nel Polesine con la famiglia ritorna giovanissimo a Milano nel 1926. Entra a far parte del movimento futurista all’età di 19 anni, esponendo fin da subito nelle mostre collettive in Italia e in Europa. Per un quindicennio, dalla fine degli anni ’20 fino ai primi anni ’40, la sua attività compositiva si delinea percorrendo il solco tracciato dalle riflessioni teoriche del movimento futurista, mostrando una interessante autonomia di linguaggio, riconosciuta ed incentivata da Filippo Tommaso Marinetti. Nel manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo firmato nel 1915 da Balla e Depero, come è ormai condiviso da molti studiosi, troviamo tutto Munari già in nuce[1], anzitutto per l’uso di materiali poveri, ma anche per la capacità di creare forme dinamiche, immateriali, evanescenti. Il tema di una smaterializzazione dell’arte è presente stabilmente in Munari durante tutto l’arco della sua attività creativa: «Ma più che altro io penso che quello da considerare sia il passaggio di una forma, che ha delle dimensioni, attraverso una metamorfosi, come fluida, per diventare un’altra, allora non si ha più una forma definita ma un momento di passaggio da una forma ad un’altra, e questo è soltanto riconoscibile attraverso il movimento».[2]
Il nome di Bruno Munari è fortemente legato a quello delle Macchine Inutili costruite a partire dai primi anni trenta. Per le prime esposizioni, all’interno delle mostre collettive del movimento futurista, l’autore utilizza nomi poetici come Macchine sensibili[3], Volumi d’aria, Respiro di macchina.[4] Quasi contemporaneamente l’artista propone, per la sua particolare idea di un astrattismo fluttuante nello spazio, un nome paradossale, un nome che ha l’indubbio merito di farci riflettere, attraverso la sintesi di un ossimoro, sull’inutilità di ciò che è utile (la macchina) e sull’utilità di ciò che è inutile (l’arte).
Munari crea dunque delle macchine da appendere al soffitto composte da elementi di materiali leggerissimi (ad esempio bacchette di legno di balsa, fogli di cartoncino dipinti su entrambi i lati, vetro soffiato, fili di acciaio elastico) liberi di muoversi nello spazio senza vincoli tra loro. La Macchina Inutile è una composizione che cerca, attraverso la sua trasformazione dinamica, di suscitare nello spettatore la percezione di una forma instabile.
Le fotografie che abbiamo scelto tendono ad esaltare la caratteristica del movimento e del dinamismo che ne deriva. Ogni singolo elemento della macchina è in grado di generare volumi virtuali e la fotografia rende l’idea di una scultura che si sviluppa nello spazio, una scultura che ha tanti debiti, ma certamente il più importante è verso le Forme uniche della continuità dello spazio di Umberto Boccioni.
Ricordiamo infine le Macchine Inutili attraverso la descrizione fornita da Dino Buzzati nel 1948: «Fatto è che questi bastoncini, come animati da un incantesimo, si mettono a vivere da soli, lentamente ruotano, vibrano, si inclinano, si schiudono a raggiera come code di pavone, tremolano come foglie. Basta che uno si schiarisca la voce nell’angolo opposto della stanza, basta il calore di una lampadina accesa, basta il quasi impercettibile filo d’aria penetrato da un interstizio della finestra e loro si mettono in agitazione. In pratica, siccome la quiete assoluta dell’atmosfera non si realizza mai neanche nei locali chiusi, essi sono in perpetuo movimento»[5].
[1] Aldo Tanchis, Bruno Munari, Idea Books Edizioni, Milano, 1986, p. 11.
[2] Dialogo con Bruno Munari di Miroslava Hàjek, in Miroslava Hàjek (a cura di), Bruno Munari Instalace, Catalogo della mostra personale al Museo d’Arte Moderna Galleria Klatovy, Klenova (Repubblica Ceca), 1997.
[3] Danilo Presotto (a cura di), Quaderni di Tullio d’Alibisola, n. 2 (1928-1939), Editrice Liguria, Savona, 1981, p.141.
[4] Enrico Crispolti (a cura di), Nuovi Archivi del Futurismo. Cataloghi di esposizioni, De Luca-CNR, Roma, 20120, pp. 575-577
[5] Dino Buzzati, Le Macchine Inutili di Munari, in Pesci Rossi, mensile di attualità letteraria, n. 10-11, ottobre-novembre 1948, anno XVII, pp. 14, 15.