Il pittore svizzero Johannes Itten vestiva come un monaco e disprezzava le macchine, l’artista ungherese Làszló Moholy-Nagy aveva la visione di un ingegnere e dichiarava che la macchina era l’anima del proprio tempo. Entrambi insegnavano al Bauhaus, la più influente scuola modernista del XX secolo. Due nature contrapposte: l’atteggiamento mistico di Itten e il rigore razionalista di Moholy-Nagy. Entrambi però avevano introdotto nelle loro opere la luce, dunque il colore, quindi la matematica, non importa se l’uno la ricercasse con esercizi di meditazione e l’altro con l’analisi strutturale. Tra i fedeli sostenitori dei principi del Bauhaus, anche lo svizzero Max Bill e il tedesco Josef Albers. Quest’ultimo realizzava quadrati inscritti l’uno nell’altro con stesure cromatiche omogenee. Diciamo che il simbolismo della pittura veniva verificato mediante un processo razionale, compiendo cioè una serie di dosaggi e ragguagli delle quantità cromatiche di una superficie.
Fabrizio Bellomo riconosce nel lavoro di questi artisti una sorta di anticipazione di quanto è accaduto in seguito, i cui risultati sono oggi confluiti nella nostra più stretta contemporaneità. Questa convinzione nasce in Bellomo collezionando una grande quantità di prove colore prodotte da stampanti digitali, necessarie per tarare le parti elettro-meccaniche che le compongono. Raccoglie questo materiale in laboratori fotografici di varie città europee, sollecitato da una serie di stimoli maturati in seguito a lunghi soggiorni a Berlino. Osservando e conservando questi fogli colorati (opere prodotte da una macchina), l’artista le accosta alle opere di matrice astratta prodotte invece dai pittori del Bauhaus. La mostra si compone in questo modo di stampe in copia unica, che di fatto Bellomo ha salvato dal processo industriale, accostate a opere storiche in tiratura limitata di importanti autori, entrambe non realizzate dall’artista, che si è dunque limitato a scegliere e comporre questi elementi fino a formare una grande installazione. L’autore cura nel dettaglio l’allestimento, recuperando vecchie cornici di alluminio e altre artigianali in legno, l’iconografia dell’opera storica e la formalizzazione contemporanea dunque coincidono.
Gli attuali sistemi di stampa, e in genere l’organizzazione del nostro mondo secondo coordinate numeriche ben precise, sono per Bellomo la conseguenza delle teorie di Albers, Itten, Moholy- Nagy e compagni, ma arretrando all’Ottocento anche della teoria dei colori di Goethe e prima ancora del disco cromatico di Newton. L’esigenza di misurare il visibile vede nel Quattrocento l’invenzione della prospettiva rinascimentale ma, indietreggiando ulteriormente, non possiamo dimenticare altri efficaci strumenti di misurazione geografica (meridiani e paralleli) e temporale (l’orologio meccanico). I color tests di oggi sarebbero dunque figli di un mondo governato dal rigore matematico.
Chi scrive si sta battendo negli ultimi anni affinché lo sguardo degli artisti del Duemila si direzioni in avanti anziché indietro, c’è ragione di pensare che Bellomo manifesti delle resistenze a riguardo, in questo caso però quest’atteggiamento è perfettamente comprensibile; il volgersi al passato, in questa particolare circostanza, si rende necessario, in quanto restituisce una maggiore consapevolezza alla conoscenza dell’oggi. L’esperienza che tutti i giorni facciamo con le immagini è ormai costruita da una rappresentazione numerica alla quale corrisponde un’informazione visiva. Per rimuovere automaticamente il “disturbo” da una fotografia è sufficiente l’applicazione di appropriati algoritmi. La digitalizzazione in atto consiste appunto nella conversione di dati continui (analogici) in rappresentazioni numeriche (digitali). Quest’ultimi sono modulari, ri-programmabili e convertibili in altri linguaggi che vivono nello stesso ambiente informatico.
Pare che Moholy-Nagy avesse ordinato la realizzazione delle forme geometriche che compongono l’opera Porcelain enamel (1922) impartendo istruzioni al telefono, cosa possibile soltanto in presenza di un codice condiviso, un sistema di riferimento che, opportunamente calibrato, rendesse attuabile la conversione e la condivisione dei dati. Un modulo, una matrice, uno stampo capace di replicare quel segno in un numero definito di esemplari. Bellomo, in modo analogo all’artista ungherese, in una delle opere in mostra, non resiste alla tentazione di esplicitare il processo di conversione di un’immagine, lo fa mediante la quadrettatura di un quaderno, uno di quelli utilizzati a scuola, quasi fosse un richiamo al processo di inquadramento a cui i bambini sono soggetti durante il periodo della formazione. Su un foglio a quadretti appunto, Fabrizio Bellomo riporta la sequenza numerica dei colori che compongono la fotografia a cui si riferisce, riscontrando così una piacevole corrispondenza formale. Queste tracce scritte a mano testimoniano come l’artista abbia provato a comportarsi come una macchina, compiendo una sorta di traduzione, un esercizio fisico dai rimandi concettuali.
Questo scritto è il testo critico di Luca Panaro che accompagna la mostra «Fabrizio Bellomo. Es geht einfach um Nummern | Si tratta solo di numeri», presso Metronom, Modena, 25.10 – 28.10.2015
immagini (cover 1) Senza titolo, 2015, mixed media, 228 x 108,7 cm, Ed. unica, Copyright Fabrizio Bellomo | Courtesy METRONOM (2) Da sinistra: Fabrizio Bellomo, Senza Titolo, 2015; Fabrizio Bellomo, Senza Titolo, 2015; Fabrizio Bellomo, Senza Titolo, 2015; Fabrizio Bellomo, Senza Titolo, 2015, Copyright Fabrizio Bellomo | Courtesy METRONOM (3) Senza titolo, 2015, mixed media, 25 x 32,5 cm, Ed. unica, Copyright Fabrizio Bellomo | Courtesy METRONOM (4) Senza titolo, 2015, mixed media, 74,6 x 49,4 cm, Ed. unica, Copyright Fabrizio Bellomo | Courtesy METRONOM