3_ Lucifero è il terzo atto di Sette Stagioni dello Spirito, il progetto napoletano di Gian Maria Tosatti, a cura di Eugenio Viola, questa volta ambientato negli ex Magazzini Generali del Porto di Napoli. L’ enorme spazio abbandonato è stato trasformato dall’artista in una delle sue scenografie interattive, dove l’unico protagonista è il visitatore che, per prassi, esplora la scena in solitario venendo così rapidamente inghiottito dall’enorme dispositivo emotivo.
Il tema di questa tappa del lungo percorso introspettivo e conoscitivo, avviato ormai da due anni, è di ordine prevalentemente teologico. L’autore, infatti, si interroga e ci interroga sul libero arbitrio e sulla ineludibile possibilità di sbagliare, riflettendo sul primo errore della storia biblica, quello di Lucifero. Un errore fatale che causò, come racconta Dante nella Commedia, la sua tragica caduta al centro della Terra, dando origine alla voragine infernale e ai suoi nove cerchi. Così nascerebbe la dicotomia tra bene e male, tra forze benigne ed identità maligne che di volta in volta pongono l’uomo nella condizione di scegliere la direzione del proprio cammino. Lucifero, dunque, è l’ angelo rinnegato che continua a far parte del «grande disegno» divino.
Il lavoro di Gian Maria Tosatti crea ancora una volta i presupposti per riflettere sulla condizione umana, sulla possibilità di aberrazione ma anche sull’ eventualità di un riscatto.
All’interno dell’opera si procede a tentoni, la presenza umana è solo accennata da alcuni indizi: radiografie, una macchina da scrivere, una pentola sul fuoco e una tv in bianco e nero che trasmette film degli anni ’40, il filtro attraverso il quale un recluso come Lucifero può osservare il mondo. In fondo i media sono ormai l’unico modo attraverso cui tutti osserviamo la vita, quasi prigionieri della nostra contemporaneità. La tecnologia è la narrativa attraverso cui si racconta la storia dell’uomo, le bobine cinematografiche raccolte in un vecchio baule sono il mezzo per comprendere l’ esistenza umana, per induzione, provando ad immedesimarsi e a percepire emozioni forse più vere di quelle reali. Il Diavolo di Tosatti assomiglia agli angeli di Wim Wenders che visitano la Terra alla scoperta dell’autenticità della vita attraverso l’esperienza, notando cose che gli stessi umani ignorano o di cui non sanno riconoscere il valore perché quotidiane. Lo spazio si trasforma in un’eccezionale metafora che sottintende l’errato rapporto dell’uomo con le «cose» e la sua incapacità di esperirle e di sentirle, riecheggia così l’osservazione di T. W. Adorno di Minima Moralia:
«La tecnicizzazione […] rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche, delle cose. […]Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel surplus – sia in libertà del contegno che in indipendenza della cosa – che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione.»
Le enormi lettere dorate che avvolgono lo spazio riferiscono passi delle Sacre Scritture (Genesi 3.5; Is 14.12-14; Matteo 4.9), delimitano la prigione dell’angelo e segnano l’estremo perimetro di un meccanismo concentrico che ha nel suo fulcro l’uomo, il pubblico. Il lavoro è un continuo susseguirsi di riflessioni e rifrazioni, di storia e mito, reale e surreale, un luogo carico di «nonsense» in cui si è indotti a vagare e ad interrogarsi.
Buio e fulgore si alternano incessantemente: gli spazi, disposti su due piani, presentano angoli profondamente oscuri squarciati da lame di luce laterali, in una piccola stanza buia risplende l’aragonite, allegoria della luminosità smarrita del Diavolo e nella penombra del secondo livello splende un ambiente completamente ricoperto di foglia d’oro. E’ proprio la camera dorata il posto in cui Tosatti immagina che viva il “condannato”, dove è possibile sfogliare il Padrone del Mondo di Jules Verne e un quaderno in cui è trascritto il monologo di Dio dal libro di Giobbe. Le superfici dorate rinviano ai dipinti medievali, ad uno spazio infinito e senza tempo, dove c’è un letto troppo piccolo per un mostro grosso come il Lucifero che ci ha descritto Dante ma dove c’è anche il passaggio dell’imbuto infernale attraverso cui si può ancora guardare il cielo.
Tanti sono i riferimenti alle due opere precedenti, link che richiamano «le stanze dell’anima» già visitate e che ricordando al pubblico che si tratta di un discorso unico e soprattutto di un’opera aperta.
Sebbene sia stato tralasciato il carattere sociale e la «funzione riattivatrice» di luoghi e memoria che aveva contraddistinto i primi due step, l’opera è situata ugualmente in un punto nevralgico della città, anzi nel suo cuore pulsante, il porto: un «non luogo» segnato dall’incessante attraversamento di identità indefinite, dove infiniti scambi con «l’altro» annullano i confini spazio/temporali fino a farli svanire in un clima di sospensione restituito a pieno dall’ artista nella sua «doppia basilica».
Sette Stagioni dello spirito. 3_Lucifero. Gian Maria Tosatti, a cura di Eugenio Viola
ex Magazzini Generali del Porto di Napoli, prorogata fino al 12 luglio, 2015 (prenot. obbligatoria al 081.19812354)
Immagini (tutte) Gian Maria Tosatti, Lucifero, La terza delle Sette Stagioni dello spirito, site-specific project, environmental installation, Napoli