Abbiamo intervistato Guido Segni, attivista della rete e video artista che agisce dietro una serie di pseudonimi (Dedalus, Clemente Pestelli, Guy McMusker, Angela Merelli, Anna Adamolo, Guy The Bore, Umberto Stanca, Silvie Inb, Fosco Loiti Celant, Guru Miri Goro, Leslie Bleus, Luther Blissett), per operare all’intersezione tra arte, pop internet culture e data hallucination. Il suo lavoro sposta l’attenzione verso le diverse (e contraddittorie) realtà del mezzo [internet], con particolare attenzione al suo impatto sociale. E’ stato co-fondatore del collettivo Les Liens Invisibile. Attualmente insegna all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dirige il laboratorio REFRAMED ed è parte del comitato editoriale per il progetto Atypo. Ha diversi progetti in corso, come Work Less, Work all – we are the 99% on Fiverr.com, progetto site-specific realizzato per il Link Cabinet (spazio online gestito da Matteo Cremonesi per il Link Art Center) e A Quiet Desert Failure presentato nel Padiglione (in)exactitude in science curato da Filippo Lorenzin e Kamilia Kard per «The Wrong – New Digital Art Biennale» [presentato anche nello spazio fisico della Biennale Off del Cairo per il progetto a New Social Contract curato da Elena Giulia Abbiatici).
Dal 2006 post internet è un termine entrato in uso per descrivere uno slittamento (certamente già in atto da diverso tempo) del mondo Internet verso una dimensione che vive unicamente nella ricombinazione di contenuti già esistenti. Tra le altre cose, il prefisso «post» ha suscitato numerose tensioni rispetto alla sua accezione temporale considerando che viviamo «dentro» la dimensione internet. Quale è la tua posizione a riguardo, e in generale rispetto alla questione terminologica?
Non credo di essere la persona più adatta per disquisire e prendere posizione su una questione terminologica così (apparentemente) delicata. Le parole non sono decisamente il mio forte. Posso dire che, in linea di massima, non mi piacciono le etichette applicate grossolanamente come nel caso del Post Internet che mi sembra contenga molte anime al suo interno. Personalmente mi sento più vicino alla definizione data da Guthrie Lonergan di «Internet Aware Art» con cui fa riferimento alla necessità di pensare ai propri lavori basati sui nuovi media e su Internet, smorzandone gli accenti entusiastici riferiti al solo aspetto tecnologico.
In poche parole, Internet e i Nuovi Media non sono poi così nuovi, e hanno una diffusione tale che fa sì che oggi più che mai rappresentino una banalità. Una banalità che fa bene in quanto induce gli artisti ad approcciarsi in maniera più istintiva ed intima a questi strumenti lasciando loro la possibilità di focalizzarsi maggiormente sulle idee anziché sull’hype mediale del momento.
After post-internet there will be only and always past-internet? Questo è un truismo in cui si riconosce uno dei tuoi lavori recenti. Come possiamo visualizzare un internet passato quando ciò che è sopravvissuto ad obsolescenza vive dentro a quello presente (e quindi nelle sue costanti riformulazioni)?
Il truismo After post-internet there will be only and always past-internet è più che altro un semplice quanto ovvio gioco di parole e un memento mori riferito al Post Internet di cui si fa un gran parlare in questo periodo. La chiave di lettura del lavoro risiede nella scelta di utilizzare come sfondo sonoro – direttamente dagli anni ‘80 e del loro immaginario pop – il celebre brano «Forever Young» degli Alphaville. Ecco, con le dovute differenze e adottando un parallelo farsesco, il fenomeno del Post Internet mi ricorda tanto certe mode e sottoculture degli anni ‘80 (penso ad esempio ai paninari in Italia) nate a seguito di un decennio, quello degli anni ’70, attraversato da forti tensioni politiche e culturali a cui reagirono con un manifesto disimpegno ed edonismo individuale.
Come definisci una performance online? Come ti poni tu come autore?
Credo che per la storia che ha, il termine performance sia spesso fuorviante, specie se, come in questo caso, applicato alla sfera dei nuovi media.
Nei miei lavori spesso la performatività non risiede tanto nell’unicità dell’hic et nunc, come accadeva ad esempio nelle performance degli anni ‘70, bensì nel loro essere parte di un meccanismo che non si esaurisce né con il prodotto finale né con il mezzo utilizzato (la pagina web, il video) ma che si innesta sul tempo e innesca dinamiche di interazione di vario tipo.
Per fare un esempio, in A quiet Desert Failure, lavoro che ho recentemente presentato in occasione di «The Wrong – New Digital Art Biennale», è identificabile con il sito web e con l’archivio di immagini del deserto del Sahara che raccolgo su un Tumblr pubblico. Il senso del lavoro risiede nel suo svolgersi nel tempo – 50 lunghi anni per portare a termine l’intera mappatura del deserto del Sahara – e nel relazionarsi con l’infrastruttura tecnologica su cui si basa, cercando di rivelarne i limiti dati dall’obsolescenza tecnologica.
Del resto non sto dicendo né inventando nulla di nuovo. Storicamente la net.art in tutte le sue forme – con e senza punto tra net e art – ha da sempre avuto una forte matrice performativa. L’hype tecnologico di Internet degli anni ‘90 e ‘00 l’ha resa celebre ma il suo vero valore lo ha dimostrato nel sapere interrogare e rappresentare la complessità della realtà contemporanea creando connessioni e relazioni tra contesti molto differenti tra loro.
Il tuo A quiet Desert failure, presentato ora anche nell’ambito della biennale online The Wrong Biennial, rallenti la velocità con cui si muove Internet. «Be patient!» Così inviti ironicamente a predisporsi chi accede al sito perché la tua performance algoritmica impiegherà 50 anni per arrivare a completamento. La scelta del deserto come soggetto del tuo lavoro, e appunto il tempo che si annuncia perché il progetto sia veramente finito, comunicano empaticamente il pericolo di un oblio imminente. E’ veramente un pericolo? O la necessità di conservare, archiviare, memorizzare è anche questa traccia di un pensiero e un’attitudine in via di obsolescenza?
La mia vuole essere più che altro una suggestione. L’intero lavoro è attraversato da diversi livelli di lettura più o meno coerenti tra loro. In primis c’è l’idea della traversata del deserto – compiuto in cinquanta anni dall’algoritmo alla base del progetto – come elemento simbolico che richiama l’immagine dei viaggi di profeti e visionari. Ma il livello di lettura che trovo più calzante mi è stato suggerito casualmente dalle parole di Vinton Cerf, uno dei «padri di Internet». In una sua recente intervista ha infatti parlato di come la rapida e incontrollata evoluzione tecnologica stia trasformando il ventunesimo secolo in un enorme buco nero con il conseguente rischio di «perdere una grossa fetta della nostra storia», evocando l’immagine di un prossimo venturo «deserto digitale dell’informazione».
Come conservi i tuoi lavori? Quando ti invitano a presentare un lavoro poni delle clausole (rispetto alla presentazione o anche alla conservazione)?
Se ti riferisci ai lavori in digitale, conservo i miei lavori online e offline.
Per quanto riguarda la presentazione dei miei lavori non pongo particolari vincoli, se non quello di mantenerne il senso piuttosto che la sua forma. Questo è particolarmente vero quando devo presentare in contesti espositivi lavori concepiti principalmente per la rete.
In questi ultimi anni si è parlato molto del ruolo dell’errore nell’ambito di produzioni software considerandone l’importanza come parte di processo evolutivo, similmente a quanto avviene in natura. Cosa significa per te l’errore? Usando il termine failure, sempre nel tuo A quiet Desert failure, sembri alludere ad altro, a qualcosa di negativo che si avvicina più al vuoto dell’oblio che non alla casualità complice dei processi di trasformazione…
Nel mondo come volontà e rappresentazione mediata da software e dispositivi di simulazione digitale l’errore rappresenta lo squarcio nel velo e un momento di presa di coscienza e consapevolezza. Il titolo e il senso di A Quiet Desert Failure vuole semplicemente suggerire che, a dispetto della sua apparente onnipotenza, la tecnologia non è infallibile. L’algoritmo è stato sviluppato per archiviare l’intero deserto del Sahara dentro ad un archivio di Tumblr, ma è destinato a fallire proprio perché non è ancora chiaro se nei prossimi cinquanta anni – il tempo necessario per la completa archiviazione – i server di Google, gli archivi digitali di Tumblr, o Internet stesso, dureranno abbastanza a lungo per permettere alla performance di concludersi.
Come si pone il tuo lavoro rispetto al mercato?
Avere una ricerca e una produzione di opere basate principalmente sull’utilizzo dei nuovi media implica purtroppo difficoltà di vario tipo, specie in Italia. Per poter proseguire la mia ricerca più che il mercato dell’arte devo fare affidamento a Premi, commissioni, l’insegnamento in una Accademia di Belle Arti e altre varie ed eventuali. Non è facile, ma così è.
Ci vuoi raccontare del lavoro che hai presentato per lo spazio online LinkCabinet?
Il Link Cabinet è uno spazio collegato al LINK Center for the Arts of the Information Age che presenta progetti di artisti nello spazio di una singola pagina web. Il mio lavoro, Work Less, Work all – we are the 99% on Fiverr.com, prosegue la ricerca che porto avanti dal 2013 sulle nuove frontiere del lavoro nell’era di Internet e della grande nuvola. Attraverso la pagina del Link Cabinet presento dei veri e propri ready-mades prelevati dai nuovi contesti del capitalismo digitale: si tratta di performance lavorative commissionate a 5 dollari l’una a creativi e freelance – uomini e donne – di tutto il mondo attraverso la piattaforma di crowdsourcing Fiverr.com e rivendute alla stessa cifra come azioni performative artistiche. Le performances presenti online – che si rifanno al concetto di body performance impiegando il corpo di lavoratori sparsi in tutto il mondo, documentano i luoghi e le condizioni del cosiddetto «digital labour» e rappresentano l’umiliazione del mondo del lavoro e del suo immaginario.
Lo stesso titolo del progetto Work Less, Work All è ripreso dal celebre slogan «Lavorare meno lavorare tutti» molto in voga nel periodo delle grandi battaglie per i diritti dei lavoratori. Dispiace doverlo ammettere per chi come me è cresciuto nell’entusiasmo dell’utopia della rete tra i ‘90 e gli ‘00 – ma da dispositivo di fratellanza oggi Internet è divenuto sempre di più un dispositivo di perversa competizione tra pari.
Negli ultimi anni, e parallelamente al costituirsi della rete come presenza fisica della nostra esistenza, c’è stata una ricerca sempre più insistente nel visualizzare e legittimare una sua territorialità. Penso per esempio al Padiglione Internet che ha costituito Miltos Manetas alla Biennale di Venezia del 2009. Quale è la tua posizione a riguardo?
Non credo alla territorialità di Internet in quanto segno identitario e legittimazione della propria esistenza. E’ sicuramente vero però che sono sempre più frequenti le manifestazioni che abbinano la modalità di presentazione di lavori tramite URL – Uniform Resource Locator, ovvero la celebre sequenza di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo di una risorsa Internet – alla modalità IRL (acronimo di In real Life) tramite musei, gallerie e spazi più o meno adibiti al mondo dell’arte. Questa di tradurre e trasporre un’opera basata sui nuovi media e di cristallizzarlo in forme più tradizionali – come ad esempio stampe digitali, on-demand books, documentazioni video – è una esigenza che nasce anche dal fatto che il rapido sviluppo della tecnologia tende a rendere obsoleta la fruizione dell’opera stessa. Senza contare che la presenza fisica di un lavoro nato e pensato per la rete più che legittimarne l’esistenza è anche un modo di trasportarne i concetti e le idee che lo animano in un contesto diverso da quello delle comunità online o dei vari festival di New Media Art.
Guido Segni’s work can be currently viewed online
at the Link Cabinet
at The Wrong Biennial (in)exactitude in science Pavillion, curated by Filippo Lorenzin and Kamilia Kard
Immagini
(cover -1) Guido Segni, «A Quiet Desert Failure», 2015, algorythmic performance, website, Tumbrl archive, snap shot from website (2) Guido Segni, «Work Less, Work all – we are the 99% on Fiverr.com», site specific project for The Link Cabinet, 2015 (this particular work was commissioned by Domenico Quaranta (3) Guido Segni, «After Post Internet There Will Be Only, and Always, Past Internet», 2015, truistic URL statement, this images was specifically made for the Spanish art .es magazine (http://www.art-es.es/) (4) Guido Segni, «Middle Finger Response», webcam portraits slide show, installation view at Dusseldorf, 2013 (5-8) Guido Segni, «A Quiet Desert Failure», 2015, algorythmic performance, website, Tumbrl archive, snap shot from website (6) Guido Segni, «A is for Art, B is for Bullshit», artist book, 2015 (7) Guido Segni, «Work Less, Work all – we are the 99% on Fiverr.com», site specific project for The Link Cabinet, 2015 (this particular work was commissioned by Marco Cadioli.