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Sabrina Muzi, primaveraestateautunnoinvernoprimavera, 2012, installazione site-specific, dimensioni variabili. Premio Terna 04 (premio online)
Sabrina Muzi è nata a San Benedetto del Tronto nel 1964. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Macerata si trasferisce a Bologna, dove attualmente vive e lavora. Il suo mondo poetico si esprime attraverso una varietà di media, come fotografia, video, performance, installazione ma anche tecniche relativamente più tradizionali come il disegno, prediligendone alcuni piuttosto che altri, secondo i vari momenti di ricerca. «C’è stato un periodo in cui lavoravo esclusivamente con il video e con la fotografia – afferma l’artista – mentre agli inizi, prima e dopo l’Accademia, mi interessavo di più all’installazione inserendovi anche aspetti legati al disegno». Altre volte, invece, è proprio dalla combinazione di media diversi che nascono installazioni site-specific, spesso pensate per essere fruite come esperienze sensoriali in cui coinvolgere tutte le facoltà percettive. Ricorrente nei suoi lavori è l’impiego del corpo e di elementi organici, naturali o commestibili.
Muzi ha realizzato una serie di opere destinate a spazi non deputati all’arte, performance partecipative e interventi urbani. Il suo lavoro è stato esposto in Italia e in varie parti del mondo. Recentemente la sua ricerca è stata al centro di una mostra personale alla galleria Dislocata (Vignola, Modena, 2014) e al Treasure Hill Artist Village di Taipei (2014). Le sue opere sono parte di collezioni e di centri di ricerca, tra cui Galleria Emilio Mazzoli (Modena), Collezione Sensus (Firenze), Careof (Milano) e Museum of New Art (Pontiac, Michigan), e selezionate per Italian Area archivio DOCVA milanese. E’ stata invitata a partecipare a vari programmi di residenza nel mondo, presso l’Atlantic Center for the Arts (Florida, 2001), il Changdong Art Studio del National Museum of Contemporary Art (Seoul, 2007), e a Kunming (Cina, 2010). Ha vinto il Premio Terna nel 2012 e, nel 2013, ha ricevuto la Fellowship International Artist-in-Residence a Taipei. L’opera che ha partecipato al Premio Terna 04, primaveraestateautunnoinvernoprimavera, deriva da un’installazione site-specific realizzata nell’ambito di un progetto di residenza cucendo foglie di varie dimensioni, colore e consistenza per costituire una sorta di membrana – tessuto. L’intervista ha avuto luogo via e-mail nel giugno 2014.
Quale è lo stato dell’arte oggi in Italia? Quale è il ruolo dell’artista nel sistema attuale dell’arte e della società?
Negli ultimi anni sono aumentati i luoghi dedicati all’arte, le gallerie, gli spazi no profit, le associazioni, le fondazioni, i musei così come gli artisti. Questo stato di fatto potrebbe far ben sperare nella possibilità del formarsi anche nel nostro paese di un’attenzione maggiore all’arte contemporanea, del riconoscimento della sua importanza tanto sociale quanto, anche, economica. Privo di qualsiasi tutela l’artista, in Italia, è spesso in balia di sé stesso e si affida alla propria capacità di arrancarsi nella giungla del sistema dell’arte. Non credo che il ruolo dell’artista sia cambiato di molto rispetto al passato. L’artista è un dispensatore di bellezza e di senso, questo è il suo ruolo, lo svolgerà ogni volta utilizzando le tecnologie della sua epoca, gli umori, le richieste e i ritmi del suo tempo, negli ambiti del sentire del momento storico in cui vivrà. Cambiano solo i committenti o le possibilità di interazioni con altre competenze, con tutte le scelte etiche che questo comporta.
Premio Terna pubblicò, in una delle sue prime edizioni, una ricerca previsionale dello stato dell’arte dal 2010 al 2015. I risultati hanno aperto una finestra su quello che è agli effetti il panorama attuale. Tra questi, anche il fatto che la crisi avrebbe portato ad un superamento dell’assuefazione rispetto alle regole dominanti, oltre ad un maggiore impegno sociale dell’arte. È quello che sta accadendo davvero?
Nei momenti di crisi, l’impegno è generalmente più rivolto a cercare soluzioni fuori dalle regole di mercato.
È come se ci si guardasse di più intorno e crescesse la disponibilità verso l’altro, verso le problematiche della comunità e dell’intero globo. In quei momenti l’artista si sente chiamato in causa, cerca di capire qual è il senso del suo lavoro nell’attuale assetto del mondo.
L’arte si è impegnata in varie forme, pur restando il rapporto con le gallerie e il sistema dell’arte. Gli artisti hanno cercato nuove strade impegnandosi nel sociale, realizzando progetti nella sfera del pubblico, operando attraverso lavori attenti alle problematiche ecologiche, ai temi dell’immigrazione e a quelli dell’ingiustizia sociale, cercando anche un coinvolgimento con le persone che potevano diventare parte attiva del lavoro o fruitori di uno spazio pubblico ripensato per le loro reali esigenze. Ma l’attenzione verso un impegno sociale dell’arte è nato molto prima che la recente crisi esplodesse, confermando la capacità di anticipare i tempi propria dell’arte.
Ricordi la tua partecipazione al Premio Terna? Stavi lavorando ad un progetto in particolare?
Ricordo benissimo la mia partecipazione al Premio Terna. Lavoravo all’opera con cui ho partecipato al Premio. Era il risultato di una bella esperienza di residenza svoltasi nelle Marche in uno spazio verde, un confronto diretto con la natura e i con i materiali che vi provengono: foglie raccolte nel luogo e cucite insieme andavano a costituire una sorta di tessuto, una pelle naturale che ricopriva un piccolo rudere, per mimetizzarsi con la natura circostante. In quel periodo stavo portando avanti una ricerca, che continua ancora adesso, sul rapporto con i materiali in relazione al loro luogo di provenienza.
In quale direzione si è evoluta la tua ricerca più recente? Ci puoi anticipare progetti e prospettive future?
Sto portando avanti il discorso sui materiali naturali, organici, una ricerca sul valore magico e metamorfico degli elementi, sul rituale come retaggio arcaico e culturale, e come tutto ciò si rapporta al corpo, un riferimento sempre presente nel mio lavoro ma che ora riconosco essersi emancipato dall’influenza delle ricerche artistiche del passato. Mi interessa il corpo come segno/simbolo, e tutto ciò che apparentemente lontano può rimandare all’idea di corporeità. I materiali organici hanno un particolare fascino per il fatto stesso di essere vivi. Li vediamo mutare sotto i nostri occhi, quando sono trattati per durare e quando terminano il loro processo di trasformazione, mantengono comunque la memoria della loro essenza, di ciò che sono stati. Un altro aspetto a cui faccio riferimento è il rapporto che abbiamo con l’immagine dei nostri corpi. Il trasferimento della nostra immagine è stato, prima un’ombra e un semplice riflesso rispecchiato nell’acqua. Da qui è nata la necessità di fissarla, con l’impronta, il disegno, la pittura, la fotografia. Trasferendo l’immagine di noi stessi lasciamo una traccia che è divenuta oramai qualcos’altro da noi, dando luogo a una quantità infinità di visioni, sensazioni e interpretazioni, che si creano e differenziano in base alla nostra cultura di origine e al nostro vissuto personale. E’ difficile trasmettere, suggerire, evocare, semplicemente far apparire senza comunicare qualcosa di preciso, ma è quello che cerco di fare ogni volta.
Come affronti, nel tuo lavoro, il tema della conservazione?
Posso dire che questa domanda mi riguarda abbastanza. Quando lavoro con media come fotografia, video, disegno, oppure realizzo installazioni con altri materiali, allora il problema della conservazione è certamente più gestibile. Mi capita spesso, però, di lavorare anche con materiali deperibili. Nel mio caso la risolvo muovendomi tecnicamente in più direzioni.
Spesso realizzo progetti site-specific, di cui una volta terminata la mostra non rimane niente, perché o il lavoro viene riassorbito interamente dal luogo (è il caso per esempio del progetto dal titolo primaveraestateautunnoonvernoprimavera presentato al Premio Terna, di cui in quel caso era visibile un’opera fotografica dello stesso) oppure devo disfarlo con la possibilità di ricomporlo in altra sede quando se ne presenterà l’occasione, a meno che un museo ad esempio non sia intenzionato ad acquistarlo e tenerlo quindi come opera permanente site specific.
Può anche accadere che lavori realizzati con certi materiali non siano destinati a sparire, perché pur essendo naturali non deperiscono, ma anzi potrebbero acquisire nel tempo un maggiore fascino, è il caso della grande collana che ho realizzato con lische di pesce, ossi di seppia, gusci di conchiglie, e altri elementi marini. Alcuni dei materiali utilizzati sono stati protetti con un leggero strato di resina, più per garantirne la resistenza durante il trasporto e installazione/disinstallazione che per proteggerli dal passare del tempo. In altri casi alcuni miei lavori, iniziano un processo di trasformazione nel tempo e poi si fermano. Bloccare questo processo non ha senso; andrebbe contro l’idea iniziale del lavoro, una foglia secca un panino secco, una scultura fatta di rami possono rimanere tali per anni. Ci sono pervenuti fossili di ogni tipo, dalle ossa a qualsiasi tipo di oggetto, anche della nostra civiltà rimarranno soltanto dei ruderi.
Di solito i miei progetti si sviluppano attraverso più modalità mediatiche. Il lavoro Rebus del 2011 è nato come installazione, destinata a ‘morire’ entro pochi giorni: una grande natura morta composta di frutti, fiori, radici, tuberi, semi… tutti ibridati insieme, una specie di natura impazzita e surreale. Subito dopo ho creato un progetto fotografico, una serie di still life realizzate in studio, un altro lavoro dallo stesso titolo, nato però come proseguimento della stessa idea. Siamo in un periodo storico in cui tutta la nostra vita è tradotta in dati informatici e le opere fotografiche e video sono memorizzate in questo modo, è vero che possiamo duplicarle continuamente, ma potrebbero essere cancellate in una frazione di secondo semplicemente per un corto circuito. Ci sono pervenuti disegni, spartiti, di secoli fa. Mi chiedo cosa rimarrà invece delle nostre opere digitali. In ogni caso non credo che gli artisti debbano preoccuparsene. Quando Leonardo ha dipinto Il Cenacolo non si è certo preoccupato del problema della conservazione, la sua urgenza era quella di inventare, che significa anche inventare e sperimentare tecniche nuove.
Come la tecnologia sta cambiando la percezione del corpo e il suo relazionarsi con il territorio?
Con la tecnologia il corpo è diventato soprattutto l’immagine del corpo. Come afferma lo storico dell’arte tedesco Hans Belting «Il confine tra corpo e immagine un tempo sembrava il confine tra la vita e la morte» e riferendosi al viaggio dantesco nel mondo dei morti che appaiono al poeta soltanto come ombre dice «ciò significa che essi erano divenuti immagini di ciò che un tempo erano stati in vita. Essendo immagini, si erano resi a lui visibili. […] Nella finzione dantesca le ombre rappresentavano un medium (una specie di TV infernale) per coloro che avendo perso il proprio corpo esistevano solo come immagine». La tecnologia ha cambiato moltissimo il rapporto con i nostri corpi perché permette di visualizzare le nostre immagini/ombre senza la presenza fisica del nostro corpo, quando ancora siamo vivi, in una sovraesposizione esponenziale tramite i media. La percezione del corpo si è modificata perché è scomparsa la separazione tra la materia e la sua proiezione. Di conseguenza è mutato il rapporto con gli altri e con il territorio. Possiamo ‘incontrare’ luoghi e persone rimanendo fermi; le nostre relazioni sfruttano il potenziale astratto, etereo.
Penso al viaggiatore degli inizi del secolo scorso e ancora indietro, che poteva avere informazioni di un luogo da mappe o cartoline illustrate o da qualche oggetto riportato da un amico, e a quel senso di «meraviglia» che può aver provato, soltanto suo ed unico, nel momento in cui arrivava a destinazione. Scopriva un territorio con un animo vuoto pronto ad accogliere quello che si sarebbe presentato. La tecnologia ci mette a disposizione tutto, questo ci eccita, ma ci espone sempre al rischio di essere troppo pieni per poter accogliere l’inaspettato. La tecnologia è una contraddizione perché ci dà e ci toglie, come tutto ciò che è legato al nuovo, protesi che ridefiniscono le nostre relazioni e il rapporto con il mondo, ma che non modificano di molto gli aspetti remoti della nostra umanità, desideri, bisogni, aspirazioni, nel bene e nel male.
Cosa dovrebbe avere (che ancora non ha) l’Italia a sostegno della creatività per rendere il nostro paese sempre più competitivo a livello internazionale? E quale paese, su scala globale, ritieni sia il migliore da questo punto di vista?
L’Italia dovrebbe promuovere e sostenere i suoi artisti, tanto su territorio nazionale quanto su quello internazionale, dovrebbe capire che sono una ricchezza. Per rendere competitivo il nostro paese a livello internazionale nel settore dell’arte contemporanea è necessaria una rete di sostegno tra istituzioni, musei, gallerie, collezionismo pubblico e privato perché gli artisti possano godere di credibilità, in Italia e nel mondo.
Sinceramente non so quale sia in questo momento il paese migliore. Per le possibilità offerte ad artisti e operatori del settore, per il mercato dell’arte, direi ancora gli Stati Uniti, New York, nonostante la crisi. In alcuni paesi del Nord Europa gli artisti hanno la possibilità di avere a disposizione uno studio gratuito o un contributo mensile se dimostrano di lavorare professionalmente. Questo sarebbe già un valido aiuto che permetterebbe di poter lavorare senza perdersi in altre attività collaterali per mantenersi. Artisti che conosco mi dicono che a Berlino la vita è molto più facile. Paesi come la Cina e la Corea, investono soprattutto negli artisti del loro paese. Invece qui si tende a dare più valore all’artista straniero. Siamo un paese ben disposto ad accogliere l’altro ma dobbiamo valorizzare di più quello che abbiamo.
Cosa ha rappresentato, e cosa rappresenta oggi per un artista il Premio Terna nel panorama Italiano e in quello internazionale?
Penso che il Premio Terna offra un’importante possibilità per gli artisti, questo è dimostrato dalla grande partecipazione che ha avuto nelle sue varie edizioni. Intanto è un Premio aperto a tutti gli artisti. Esistono altri Premi in Italia in cui la possibilità di partecipare deriva dall’essere segnalati da curatori. Inoltre per partecipare al Premio Terna non c’è un limite di età; questo è un altro aspetto positivo. Sono d’accordo che ci siano bandi riservati ad artisti giovani, ma dovrebbero essercene altrettanti per i non più giovani, specialmente in un paese dove le possibilità offerte a un artista sono già poche. Infatti mi è sembrato molto intelligente la divisione nelle due categorie sopra e sotto i trentacinque anni. Un altro aspetto positivo è che non c’è da pagare la cosiddetta quota di iscrizione, come succede in altri premi, che anche se bassa, non costituisce secondo me un elemento di serietà e professionalità del premio.
Terna è un’azienda che si occupa di trasmettere energia al Paese. Il suo impegno con Premio Terna si focalizza sulla trasmissione di energia all’arte e alla cultura e nella creazione di una rete di sostegno e sviluppo del talento. Ritieni la formula del Premio Terna ancora attuale per la promozione dell’arte? Hai qualche suggerimento da dare per la prossima edizione?
Penso che la sinergia tra arte e impresa sia una strada molto valida, e che in Italia bisognerebbe praticarla di più, sarebbe un motore di sviluppo per tutti e due gli ambiti e per il paese. La chiamata a realizzare un progetto sui tralicci, nell’edizione del 2012 per gli artisti ad invito mi è sembrata una bella formula, perché è importante che rimanga una traccia sul territorio. Anche il tema dell’ultima edizione legato al sociale e alla solidarietà è in sintonia con i tempi, proporre ogni anno un tema per il premio è uno stimolo per gli artisti. Un suggerimento che darei riguarda invece la necessità di dare una migliore visibilità ai lavori degli artisti premiati. Il Tempio di Adriano è un luogo stupendo ma probabilmente poco adatto se si vuole dare spazio a una serie di lavori che propongono una varietà di media, fotografia, video, installazioni, etc…
Se si è costretti a mettere delle pannellature perché ovviamente non si po’ intervenire bucando mura storiche, la mostra assume più l’aspetto di uno stand fieristico che non di un’esposizione di arte contemporanea. Non conosco tutti i luoghi disponibili a Roma ma penso che un museo d’arte contemporanea o anche una struttura industriale recuperata, sia più adatta, per dare respiro ai lavori e favorire una migliore fruizione, facendo diventare la fase espositiva non solo il momento finale di celebrazione dell’evento ma una fase importante di promozione e diffusione dell’arte nel territorio. È buona l’idea di stabilire una rete di relazione con altre istituzioni all’estero attraverso il programma di residenze, manterrei e investirei ancora di più in questo aspetto.