SHE DEVIL, la rassegna video al femminile promossa da Stefania Miscetti a Roma, e organizzata da un collettivo di curatori, è alla sua ottava edizione ed è in corso in questi giorni. Il tema di quest’anno è lo SPECCHIO quale luogo di riflessione e confronto in cui la nostra immagine è moltiplicata e analizzata in modo critico, alla ricerca di una nuova soggettività attraverso la quale impostare nuove dinamiche di relazione con il presente. SHE DEVIL indaga sui contorni dell’identità femminile che a volte scivola sulla superficie riflettente e altre ha invece bisogno di spezzarne con violenza l’illusione. Tra passato e futuro è nel rispecchiamento che l’esistente si svela e si rivela su tanti diversi piani.Ecco i lavori che vi aspettano e sono descritti per mano delle curatrici che li hanno selezionati.
Madrina di SHE DEVIL 8 è Elaine Shemilt con la video performance Doppelgänger. L’opera fa parte di una serie di sperimentazioni video di artiste donne degli anni ’70-’80, riscoperte e rimasterizzate in digitale dal progetto di ricerca REWIND, diretto dal Professor Stephen Partridge. Doppelgänger è uno dei due video ancora esistenti di una serie iniziata dalla Shemilt nel 1974 ed è stato recuperato nel 2011. Il termine doppelgänger è utilizzato nella cultura tedesca per indicare il gemello maligno (doppel /doppio, e gänger/che se ne va). Il doppelgänger di Elaine Shemilt è tutto al femminile. L’artista si trucca di fronte allo specchio in un rito diviso tra il volto e la sua immagine riflessa che genera il proprio doppio, protagonista assoluto del finale.
Silvia Giambrone attualizzando le ricerche delle artiste degli anni Sessanta e Settanta esplora il tema del corpo da un nuovo punto di vista. Nel video Sotto tiro del 2013 il suo corpo diventa il bersaglio di un puntatore laser che la prende di mira. Il corpo dell’artista è nudo e il viso struccato perché “…ognuno di noi è nudo con le proprie ansie..”. Il sentirsi minacciata scatena una reazione istintiva: quella della seduzione per esorcizzare il sentimento di paura. Il video finisce senza una conclusione perché la condizione in cui si pone l’artista è continua: “Non mi interessava un’opera chiusa, concettualmente parlando…e forse proprio nella differenza con chi guarda, che posso trovare un territorio comune, uno spazio di comprensione.”
In Shooting Stars Remind Me of Eavesdroppers di MAHA MAAMOUN, che letteralmente si traduce in “Le Stelle Cadenti Mi Ricordano Le Intercettazioni”, la video-camera attraversa l’armonica vegetazione e vita dell’Al-Azhar Park, un parco al centro del Cairo distante dal caos e dal rumore cittadino, per poi posarsi su una coppia di amanti, catturando di nascosto la loro conversazione. Molto poeticamente i due parlano di concetti di verità e di fiducia: la fiducia nel soggetto amato e la violazione di quella stessa fiducia attraverso il sospetto e l’ascolto segreto. Il film si relaziona sottilmente con la nostra posizione di anonimi osservatori e il rapporto rispetto a ciò che vediamo, il diverso grado di verità insito in una conversazione rubata, non formulata per essere ascoltata (e filmata), e in una consapevole della nostra presenza.
L’artista lituana Jurga Barilaitė costruisce con il proprio corpo un ring invisibile. Infilandosi un paio di guantoni sporchi di pittura inscena il classico rituale della lotta e colpendo con rabbia ripetutamente un’enorme tela nera, arriva a comporre l’immagine di un volto, una maschera di se stessa ma anche dell’altro da sé. E’ un’eroina che utilizza i muscoli per decostruire l’immagine convenzionale del mito della pittura gestuale propria di un ordine gerarchico precostituito. Come artista si pone di fronte al suo essere pittrice nel XXI secolo e dall’auto distruzione arriva alla creazione del sé.
In If I were a … di ELIA ALBA (2004), un uomo si guarda allo specchio indossando tre abiti diversi: ciascun abito è confezionato con stoffe su cui l’artista ha stampato frammenti di immagini digitali del suo corpo, di cui ha modificato il colore della pelle ed ha distorto alcune parti. Il terzo abito è un mix degli altri due. If I were a … è la sintesi di una serie di concetti che faranno da sfondo alle elaborazioni successive dell’artista tra cui primo fra tutti l’indagine sull’identità, sia essa razziale, sessuale, scomoda o rappresentata in maniera distorta. Il travestimento è invece metafora del meticcio, della condizione dei migranti, della voglia di eguaglianza delle minoranze, della libertà di esprimersi senza censure. If I were a … è parte della collezione permanente del Museo del Barrio di New York.
I video che Saoirse Wall condivide liberamente su YouTube sono fortemente irritanti e attraenti. Si permette di apparire, scomparire, danzare, recitare, sedurre, disgustare di fronte alla webcam, nella solitudine della sua cambretta. La titolazione che la Wall sembra prediligere per le sue opere fa abbondante uso della neolingua fatta di abbreviazioni e quasi totale assenza di lettere maiuscole. I suoi travestimenti di fronte alla telecamera sono riflessi delle molte personalità che decidono di mostrarsi non appena un riflettore le illumina. Se reclining nude as the v lascia già presagire nel titolo le innumerevoli Veneri della storia dell’arte che una ricerca per immagini può mostrare su Google, nope not lonely spalanca la porta a un peculiare erotismo in cui la possibilità del virtuale ci trasforma in reale. Vedersi agire in pose altamente erotiche determina una forma di sicurezza attrattiva da poter sedurre noi stessi e, quindi, potenzialmente, tutti.
Durante i primi anni di ricerca artistica Angela Marzullo ha dato vita al personaggio di Makita, alter ego protagonista e firma di gran parte dei suoi lavori. Per creare il suo label l’artista sceglie un nome che richiama fortemente il machismo: Makita è il nome di una società produttrice di attrezzature e utensili professionali come sparapunti, trapani e martelli pneumatici. In Makita Witch, la protagonista vola a cavallo della sua scopa, munita di una cartucciera piena di proiettili come una strega moderna. Attraverso un gioco di specchi, Makita si riflette sulle pareti e per terra, creando l’illusione di una danza compulsiva ed ipnotica, accompagnata a tratti da rumori di frequenza, suono e respiro. La superfice riflettente si dissolve man mano divenendo tutt’uno con l’immagine riflessa, che si moltiplica e conduce al cuore di un sabba. È in questo labirinto animato lo spettatore perde il suo sguardo.
Il video Rampage (2012) di ROBERTA GARBAGNATI, documenta una serie di azioni programmate e compiti eseguiti dall’artista con una serie di oggetti precedentemente scelti. Le azioni hanno luogo in una cantina-studio dove vengono accumulati gradualmente nel tempo oggetti, materiali, attrezzature di provenienza e di uso diverso, senza uno scopo preciso. Questo luogo privato di accumulo diventa un unico set, mentre alcuni degli oggetti presenti sono scelti per dare luogo ad una serie di esercizi che sono il risultato di un circuito senza soluzione di continuità in cui si alternano tensione, equilibrio, limite, impulso, decisione e rischio.
Il video Misty Rain Blue dell’artista islandese, Ásdís Sif Gunnarsdóttir, cattura la conversazione tra un uomo e una donna in un’atmosfera onirica. La voce dell’uomo dà potere a lei, l’artista che sembra svegliarsi da un sogno magico, ponendole domande cruciali riguardo l’esistenza. Lei riflette sul sopravvivere, sulla saggezza vitale. Lo strumento per questo mistico risveglio è uno specchio, un mezzo per percepire la sua trasformazione spazio temporale. Ásdís è performer e videoartista: è uno dei membri del gruppo “Theater of Artists” che produce grandiose serate di performances nel sotterraneo del The National Theater in Iceland.
Alice Schivardi “Yellow”. Nel 2014 Alice è a New York per una residenza presso l’ISCP (International Studio&Curatorial Program). E’ sola, è circondata da sconosciuti, non parla bene inglese, non capisce le conversazioni, vive costantemente in un flusso di suoni più che di parole. Quel meccanismo di riconoscimento automatico che arriva dal riflettersi nell’altro, nella dimensione di estraneità comincia ad incrinarsi. “Yellow” nasce da questo disagio. E come ogni lavoro di Alice Schivardi, il sentimento trova la sua forma e attiva un processo creativo. Un video (che in una sua prima versione raggiunge i 31 minuti) dove bocche straniere cercano di pronunciare il suo nome. E’ la messa in scena, come lei stessa spiega: “del paradosso di essere riconosciuta da sconosciuti”.
Nella video performance Undressing (2006) di NILBAR GÜRES, l’artista si toglie faticosamente, uno dopo l’altro, i molti strati di stoffa che le coprono la testa e la nascondono completamente, scandendo, per ogni foulard, il nome della donna della sua famiglia che gliel’ha dato. Le stoffe, a motivi colorati, sono tipiche della tradizione curda da cui Nilbar Güreş proviene. Il velo, più che come oggetto legato a un’imposizione religiosa, viene letto qui come elemento di identità femminile e di legame con le proprie radici e con la propria storia familiare. Un legame che non va negato ma da cui occorre sapersi emancipare per far emergere la propria immagine più vera. Fondendo elementi autobiografici con altri apertamente politici, Güreş affronta nel suo lavoro il ruolo della donna e la strumentalizzazione della questione femminile nell’ambito del difficile dialogo tra paesi islamici e occidentali.
Alla base del film Uniform (2015) di Magdalena Golba c’è la supposizione dell’artista che a volte siamo capaci di influenzare il corso della storia e il passato. A volte la storia non si può verificare, e spesso ci troviamo di fronte a versioni opposte dei stessi episodi storici. Quindi la nozione della storia, così come viene percepita oggi, è qualcosa di manipolabile. Dall’altra parte sappiamo che avvenimenti storici influiscono sul presente. Attraverso la manipolazione del passato, si può incidere sul presente. L’uniforme, la tuta, il camice…, rappresentano tutte una forma di indumento carico di valenze simboliche che la persona che lo indossa assimila inconsciamente – le fa proprie e le interpreta di conseguenza. Questo è un film che si potrebbe definire Para-documentario. Per realizzarlo l’artista ha usato diversi tipi di materiale grezzo (footage), sia quello che ha raccolto da sola nei diversi luoghi dove è d’obbligo indossare l’uniforme, sia quello che ha potuto reperire da archivi privati e da internet. Assemblato e montato insieme come un collage di immagini apparentemente simili che si susseguono, il film prende forma e viene presentato come una proiezione single-channel.
She Devil In The Mirror, Studio Stefania Miscetti, Roma, fino al 16 aprile, 2016 /artisti: Elia Alba, Jurga Barilaite, Roberta Garbagnati, Silvia Giambrone, Magdalena Golba,Nilbar Güres, Maha Maamoun, Angela Marzullo, Alice Schivardi, Elaine Shemilt, Ásdís Sif Gunnarsdóttir, Saoirse Wall/ curators: Antonia Alampi, Benedetta Carpi De Resmini, Dobrila Denegri, Caterina Iaquinta, Pia Lauro, Alessandra Mammì, Manuela Pacella, Cristiana Perrella, Lydia Pribisova, Elena Giulia Rossi, Chiara Vigliotti, Paola Ugolini
immagini (cover 1, 12) MAGDALENA GOLBA, Uniform, 2015, video, 7’00” (2) ELAINE SHEMILT, Doppelgänger, 1979-1981, video/performance, 9’12’’ (3) SILVIA GIAMBRONE, Sotto tiro, 2013, video, 5’01’’ (4) MAHA MAAMOUN, Shooting Stars Remind Me of Eavesdroppers, 2013, video, 4’45’’ (5) JURGA BARILAITÈ, Indispensable Defense (Self Defense), 2000-2001, video, 7’34’’ (6) ELIA ALBA, If I were a …, 2004, video, 4’04’’ (7) SAOIRSE WALL, reclining nude as the v / nope not lonely, 2012/2013, video, 1′ 49” / 0′ 20” (8) ANGELA MARZULLO, Makita Witch, 2008, video, 3’00’’ (9) ROBERTA GARBAGNATI, Rampage, 2012, video, 6’00’’ (10) ÁSDÍS SIF GUNNARSDÓTTIR, Misty Rain Blue, 2015, video, 1’38” (11) ALICE SCHIVARDI, Yellow, 2014, video, 4’46’’